“La colonna del prodigio” ovvero un inedito e poco conosciuto miracolo della Madonna della Madia
Così, cinquant’anni fa, il 16 gennaio 1960, don Cosimo Tartarelli, colto ed erudito sacerdote, appassionato cultore di storia locale e fondatore della rivista “La Stella di Monopoli”, testava un suo articolo pubblicato su uno dei primi numeri della stessa e che portava alla luce un inedito e poco conosciuto miracolo della nostra Madonna della Madia. Uno dei tanti, in verità, effettuati ed accaduti , per intercessione della Protettrice di Monopoli a far tempo da quel lontanissimo e fatidico approdo del 16 dic. 1117. Un prodigio, raccconta il Tartarelli, sfuggito persino alle successive narrazioni di oculati, attenti e fedeli cronisti dei prodigi della B.V. della Madia, quali il canonico Alessandro Nardelli ed il vescovo Antonio Olivieri, comunque ritrovato in un atto notarile esistente in copia originale presso l’Archivio Diocesano di Monopoli, e rogato per mano del “notario Mario Alessio (o D’Alessio) de Monopoli in data 16 giugno 1750”. Notaro, che fu anche sacerdote di rango operante presso la chiesa cittadina dei SS. Apostoli Pietro e Paolo e che viene inoltre menzionato dal Bellifemine, nella sua opera dedicata alla Basilica della Madonna della Madia, quando nel 1740 ponendosi già le basi per la costruzione dell’attuale basilica, lo stesso rogava “con pubblico istrumento” l’obbligo di contribuzione da parte della Congregazione del Santissimo alla realizzazione dell’opera con l’erogazione di “docati mille in contanti” ed ancora a partire dal 4 gennaio 1742 con la stipula molto importante e fondamentale dello strumento per la edificazione del duomo, “in vigore del quale si cominciarono a buttare a terra le fabbriche della cappella della Vergine della Madia”, con corollario poi nei mesi seguenti, acquisizione mediante “compera di case”, appartenenti a svariati cittadini monopolitani, tali Caterina Calabria, Francesco Selicato, Luca Tedesco, Michelangelo Musario, Vitantonio Palasciano della terra di Mola ed altri, che, vennero abbattute per far posto alla nuova cattedrale che doveva essere molto più capiente di quella romanica e quattrocentesca.
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Personaggio, quindi, certamente di rilievo e di spessore, questo notaro monopolitano, che così relaziona sull’accadimento miracoloso, con la nutrita testimonianza del rev. D. Michelangelo Valente, di Stefano Caldararo, dei maestri Onofrio Corbascio, Giovanni Lo Savio, Oronzio Ernandes, Francesco Salicato, Pietro Le Grottaglie, tutti monopolitani, ed infine di Niccolò Lamberti, capo mastro marmoraro, Innocenzio Tibaldi, Matteo Flurio, Antonio Stella e Niccolò Pettini, marmorari della città di Napoli, i quali coadiuvati e diretti dal Lamberti stavano appunto provvedendo quel 16 giugno a porre in opera, anche grazie al fattivo contributo “in limosine” di fedeli e divoti, l’altare di marmo nella Cappella della Madonna mediante funi, trappole e taglie (quest’ultime dal lat. mediev. tallia quale attrezzo per tendere cavi o reti), peraltro approntate con l’aiuto e la perizia di molte delle sopranominate persone. Del relativo ornamento di ben “quattro colone di Piperno vestite di verde antico”, tutt’ora visibili ai lati dello stesso, del ragguardevole perso di oltre “15 Cantara” ciascuna. Colonne, queste, del peso di circa 14 quintali cadauna, e, costituite per l’appunto da un tipo di roccia eruttiva effusiva, di colore grigio, con passerelle lenticolari scure, usata in Campania come materiale da costruzione e così detta poiché proveniente dalla località di Piperno, l’odierna Piverno, in prov. di Latina. Le suddette maestranze, quindi, dopo aver provveduto a tirare e sistemare, senza problema alcuno, le prime due sul lato sinistro dell’altare, continua l’atto notarile, “verso le ore 18 ½” , (cioè alle 2,30 pomeridiane, secondo il computo dell’epoca, che a cominciare dall’Ave Maria, nel mese di Giugno era alle ore 20), mentre si accingevano a tirare su la terza colonna “che è appunto quella che sta situata al lato dritto in faccia al muro”, opportunatamente e compiutamente imbracata da funi e quant’altro, quando la stessa era stata sollevata da terra per circa “due palmi” (cioè oltre 50 cm.), tutti i presenti intesero un forte “colpo”, o rumore di “crepatura o rottura” che si credette provenisse dal legname con la quale era stata preparata “l’Anito o ànto” cioè l’impalcatura. Il successivo riscontro e verifica sopra la quale, effettuato dal mastro Francesco Salicato, su disposizione del Lamberti, diede però esito negativo, poichè non fu trovata rotta o crepata alcuna trave o tavola e ne tantomeno alcune fune di sostegno. Pertanto, non ravvisando alcunché il Salicato nella sua ispezione e pensando si trattasse di un rumore di assestamento causato dal legname dell’impalcatura, si diede ordine di continuare a tirare sù la colonna che alla fine, e prima di essere felicemente, appoggiata sulla sua base, rimase sospesa “per mezzo quarto d’ora” per un altezza complessiva di “10 palmi e mezzo” (mt. 2,86 circa). Grande però fu la sorpresa, lo stupore e la meraviglia di tutti, quando, “sciolte le funi dal Corpo della Colonna, dalle taglie, dalle trappole e da altri ordegni, trovarono che la fune principale attaccata alla trappola, ch’erà grossa e ritorta a quattro Capi”, risultò rotta in tre Capi, e “manteneva soltanto un capo solo di grossezza quanto un anulare di un uomo, e pure sfilacciato”. Pertanto, di conseguenza, la suddetta fune principale, o meglio quel che ne rimaneva, fu portata all’attenzione dei presenti che si resero conto che “il rumore o scoppio della crepatura” prima ascoltata, non poteva che essere attribuita e sostanziata dalla fune, potendosi ragionevolmente escludere tutte le altre attrezzature usate, “poiché osservate, di nuovo, con diligenza”. Dal che, quindi, ognuno dei presenti, gridò ad un miracolo attribuibile alla intercessione della Vergine SS. della Madia. L’atto notarile del D’Alessio, infine, si sofferma ed analizza l’accaduto in molti risvolti e fornisce anche spiegazioni di quella che avrebbe potuto essere una grossa tragedia umana, evitata invece, solo all’intercessione e grazia della nostra protettrice, che si potesse ritenere significativamente “portentoso” e, quindi, inspiegabile e da tenere da conto, il fatto che una fune così rotta e “ridotta ad un semplice capo di grossezza come un dito anulare”, avesse potuto sostenere un “peso cotanto stravagante” (circa 14 quintali), “essere stato tirato in aria per otto palmi e mezzo”, e “tenuto sospeso per due volte tanto”; sottolineando inoltre che, se la gente che lavorava per detta opera, si fosse solamente accorta della fune rotta, sarebbe certamente fuggita abbandonando la colonna nello stato in cui era, che sarebbe così caduta arrecando molti danni e “sconciando malamente l’Altare di marmo, che era in buona parte costruito” e forse “sfondando la lamia (il solaio) della Cappella della Madonna”; poi, un ultima cosa, certamente la più grande e significativa, quella che, nell’occasione, sarebbero certamente morti il Lamberti e il Salicato, che stavano sotto la colonna e che invece devono la loro sopravvivenza, grazie appunto al prodigio miracoloso della Vergine della Madia. Conclusioni queste, che, secondo l’estensore dell’atto notarile avvalorerebbero e sostanzierebbero la portata di questo avvenimento miracoloso, peraltro riportato anche nel processo canonico di incoronazione della Madonna, effettuato poi l’8 luglio 1770, dal Vescovo Giuseppe II Cacace (1761-1778), su istanza del Capitolo di S.Pietro. Corone che furono eseguite dall’orafo napoletano Bartolomeo Baroni, costarono 115 scudi e che si possono e si fanno ammirare, ai giorni nostri, nel Museo Diocesano di Monopoli.
Antonio Comes