Antichi mestieri, arti e professioni e…qualche curiosità nella Monopoli del ‘600

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Casina del serpente (ovvero quando la cultura non va in vacanza)

Che la cultura debba costituire un bene comune, a disposizione assolutamente di tutti è un teorema, un assioma difficilmente discutibile in un‘epoca, come quella che stiamo vivendo, dove, invece la stessa sembra relegata, anche e soprattutto a causa della scarse e risicate risorse a disposizione, ad appannaggio di pochi eletti o comunque di chi, può acculturarsi, solo spendendo di tasca propria. Quindi in tanto negativo ed altalenante contesto, ben si colloca la lodevole iniziativa dell’attuale responsabile della Biblioteca Comunale "P.Rendella" di Monopoli, Paolo D’Amore, che, nonostante il perdurare della chiusura della stessa per lavori da ben cinque anni ( e che se andrà bene, lo sarà, ancora perlomeno per altri due o tre anni), si sforza, in maniera meritoria ed encomiabile e pur in presenza di un bilancio comunale che stanzia quasi zero in merito, di mettere ciclicamente a disposizione nel piccolo spazio a piano terra dell’antica caserma spagnola, oggi cosiddetta "Biblioteca dei ragazzi", in P.za Garibaldi, e quindi di studenti, studiosi, appassionati e di chiunque sia interessato, materiale librario, documentazione e faldoni costituenti l’Archivio Storico Comunale, depositato, come è ben noto presso il C.N.I. di Rutigliano. Tra questi, assume particolare rilevanza una copia fotostatica del Catasto o Apprezzo Generale del 1627, ponderoso documento costituito da tre tomi ed un appendice, iniziato il 19 nov. di quell’anno, sindaco di Monopoli, il nobile Mario Indelli, dal dottore di leggi, il napoletano Vincenzo Caracciolo, commissario delegato della Regia Camera della Sommaria, precedente delega del vicerè d. Antonio Alvarez de Toledo, 2° duca d’Alba e speciale ordine del marchese Carlo Belmonte di Tapia, reggente della Regia Cancelleria, dal quale e nel quale si evince, tra l’altro, un’interessante spaccato sociale e, quant’altro, della Monopoli di quasi quattro secoli fa.

(continua)

Una autentica finestra, aperta sul passato della nostra città, fotografata, è il caso di dire, dal di dentro, e sia pure non esaustivamente, con i suoi fuochi, cioè i suoi nuclei familiari ammontanti a circa 2000 unità che fanno stimare e presupporre per l’epoca una popolazione di circa 10.000 anime, riportati peraltro analiticamente per nome, cognome, età, costituzione del nucleo familiare, condizione socio professionale, beni, censi posseduti e debiti, da cui poi scaturiva l’ammontare delle tasse da corrispondere. Tanti, quindi sarebbero gli argomenti che si potrebbero trattare, sviluppare e riportare alla luce, svariando dalla descrizione ed individuazione dei beni e terreni posseduti, dai toponimi delle località e contrade dove gli stessi ponevano, ai mestieri, arti e professioni praticati, per finire alle curiosità derivanti dai cognomi più diffusi e ai relativi soprannomi che in ogni epoca, hanno poi letteralmente etichettato ed individuato per generazioni un determinato individuo o il nucleo familiare di appartenenza. Ci limiteremo quindi in questa sede, a dare spazio al momento, solamente alle categorie socio professionali presenti nel substrato urbano dell’epoca, e che, vengono suddivisi dalla studiosa Annastella Carino nella sua "La Città Aristocratica – Monopoli tra ‘500 e ‘600", in Lavoratori della terra, dove furoreggia con ben 770 fuochi la figura del "Forese" e del "Forese Giardiniero", contadini che avevano proprietà terriere extra moenia, cioè fuori le mura, che coltivavano di giorno, rientrando poi nelle più sicure mura della città al calar delle tenebre, quando le porte della stessa venivano serrate; di rilievo, ma molto distanziato come fuochi (solo 17), la figura del "Massaro" che, pur facente parte di una classe cosidetta intermedia, e che cioè amministrava le masserizie di chi viveva dei propri beni, facendo lavorare i braccianti, ha poi assunto una grande varietà di significati a seconda dei luoghi, dei paesaggi agrari ed anche dei tempi diversi indagati in uno stesso luogo; certamente poi i "Fogliari", cioè gli erbivendoli, si facevano rispettare con 14 fuochi, mentre rimane esigua la presenza dell’"Ortolano", termine che individuava sin dal XIV sec. "chi lavora e custodisce un orto" e poi dal XVII sec. anche "venditore di ortaggi", continuando poi con lo "Zappatore", con il "Porcaro", dal lat. "porcarius", diffuso a Monopoli nel XV sec., come colui che governava porci e maiali, e sino al non comune "Gualano", anche questo derivante dal lat. "gualanaus", e poi dal dialetto "ualène" o "valène", termine presente a Monopoli sin dal 1576 e citato dal Cirullo nella Selva d’Oro, indicava il bifolco o bovaro. Di una certa consistenza era anche la categ. dei Lavoratori del mare, dove la figura del "Pescatore" risulta presente con 57 unità, mentre molto risibile, appena una unità, quella del "Salinaro", cioè di quello che il termine latino "salinarius", identificava sin dal XIII sec. come "custode e lavoratore nelle saline", una presenza comunque molto rara, in quanto non erano segnalate saline di sorta nei paraggi o a ragionevole distanza dalla città o anche nella dominazione veneziana un ufficiale preposto all’imposizione sul sale e quindi incaricato della tassa sul sale, bene e prodotto molto prezioso in ogni tempo; dal che quindi e, con molta probabilità, il tal Giovanni Colaiasso di a.35, era l’appaltatore della gabella sul sale o molto più modestamente un venditore dello stesso. Ben più sostanziosa e nutrita si presentava invece la categ. degli Artigiani e Commercianti, con diverse figure che, anche ai nostri giorni non abbisognano di soverchie spiegazioni e chiarimenti per poter essere individuati, e che comunque risultano profondamente rinnovati nel loro evolversi nel corso dei secoli, il "Barbiero", presente in 7 fuochi, che spesso all’epoca ed in mancanza del "Chirurgo", si occupava tra l’altro anche dei salassi; il "Bastaso" (17), nel dialetto "u vastese" che indicava il portabagagli, il facchino, oppure anche il villano, il lazzarone, ed infine nelle costruzioni l’architrave; il "Potecaro" (14), che già presente nel Libro Rosso della Città nel 1509, deriva dal veneto "poteghe", da cui il temine dialettale "pettèche", quindi il diminuitivo "pettichere" ed era il bottegaro, negoziante o mercante, detto pure "Stazzonaro"; il "Bucciero" o "Bocciero" (13), deriv. dal lat. "bucceria" (fem.le) o "buccerino (masch.), quindi nel dialetto "vucceré" (macelleria) o "vuccìre" (macellaio); il "Caldararo" (1), chi realizzava recipienti in rame, e che oggi risulta quasi completamente esautorato dai tempi; il "Calzolaro" (1); il "Cappellaro" (4); il "Carvonaro"(2), chi produceva e vendeva carbone per riscaldamento; il "Chianchero" (2),chi realizzava pavimenti, strade e luoghi ed aree esclusivamente di chianche, nel dialet. "chjànde"; il "Coltraro", derivante da coltro, termine di origine indoeuropea, che indicava l’organo dell’aratro che taglia verticalmente la fetta del terreno da rovesciare, identificando così colui che usando lo stesso arava di fatto i terreni; il "Conciamolini", altro mestiere pressoché scomparso e che identificava chi era addetto alla riparazione dei molini dell’epoca; il "Conciatore di pelli", dal dialetto " cunzè", poi diventatato nell’800 il conci pelle al quale è da accostare il "Coyraro" o lavoratore coiraro, una figura questa che compare successivamente anche nel Catasto di Solofra (Av), capitale delle lavorazione delle pelli, per descrivere l’artigiano molto vicino al maestro conciatore e quindi legato all’attività della concia, coiaio o cuoiaio, come chi "concia o vende cuoio; il "Cosetore" (12), dal lat. "consuere", cioè cucire insieme, da cui il termine dialettale "cusatòre", cioè chi cuce , lega insieme, sutura, figura questa comunque diversa dall’odierno sarto che viene indicato come "Sartore"; poi "Fabbricatore", o anche zuccatore, muratore o costruttore e "Ferraro", l’attuale fabbro, categorie queste presenti in numero consistente di fuochi, rispett. 20 e 22; il "Fornaro" (5), mestiere che non abbisogna certo di chiarimenti ulteriori; i "Manipoli" o "Manipuli", termine che deriva certamente dal lat. "manipulus", cioè da "manus (mano) e da "pi-ere"(riempire), che voleva quindi riferirsi a quanto può stare nel palmo di una mano, comunque nella fattispecie ed escludendo insiti significati militari ed ecclesiastici, si può ragionevolmente ritenere che gli stessi, come nella vicina Polignano a Mare, erano manovali, cioè giovani garzoni, oggi diremmo apprendisti che aiutavano i mastri muratori, difatti viene indicato in proposito un tal Donat’antonio di Andrea de la ghezza, di anni 14; il "Maestro d’ascia", mestiere questo molto presente per l’epoca (35 i fuochi complessivi) e che nella sua accezione moderna identifica un "operario abilitato alla costruzione di imbarcazioni di stazza limitata", definizione che poi non dovrebbe discostarsi molto dal termine generalmente usato nel 1627, epoca nella quale però tra i cosiddetti maestri d’ascia vi furono artigiani, veri e propri artisti cesellatori ed intagliatori del legno che ci hanno lasciato opere e capolavori che fortunatamente possiamo ammirare ancora oggi e tra i quali si inserisce a pieno titolo la figura del monopolitanissimo Fabrizio Jannulo o Giannulo, 39 enne, all’epoca di formazione del Catasto, casato con Antonia Poppa, di a. 32, quattro figli, Ottavia di 15 a., Giuseppe di 13, Cola Maria di 7, Vittoria di 3, e, possessore "…….nella parrocchia di S. Salvatore di una casa palazzata confinante con Bartolomeo Curzio da due parti et via pubblica………", cui viene attribuito tra l’altro "un tronetto in legno", per l’esposizione del Santissimo, nel Convento di S.Maria delle Grazie, attuale Parr. di S.Antonio, di aver operato nel 1630 relativamente al coro della chiesa di S.Domenico come ci riferisce R.Sardella nella sua recensione "Appello per i restauri a S.Domenico a Monopoli", edita su "La Stella di Monopoli" nel maggio/luglio 1963 ed autore infine nel 1640 anche dello splendido coro della Chiesa di S.Domenico a Lucera, sulla cui fiancata sin. si evince molto chiaramente la firma dell’intagliatore monopolitano: <MAGISTER FABRITIUS IANNULUS DE MONOPOLI FACIEBAT>, rientrando infine a pieno titolo in questa categ. quella di "Maestro di ligname", figura ricoperta tra l’altro da un mastro Lorenzo della Ghezza; il "Mesuratore di grano e farina e olio", dal dialetto "mesuretòre" erano pesatori che agivano nelle gabelle del dazio e quantificavano attraverso il peso del grano, della farina, dell’olio prodotto o importato il relativo tributo da applicare. La qualcosa avveniva quindi in maniera molto rigorosa, poiché da tale gabella (in primis quella sulla molitura), la città traeva il suo principale introito; il "MOLINARO", dal lat. "molendarius", indicava il mugnaio, già "molenaro" nel 1560, che oltre alla possibilità di macinare la farina, la trasportava, la vendeva. Macinava anche segala, orzo e granturco, permettendo così di utilizzare tempo prezioso in campagna per faccende impegnative; il "Merciarulo", non era altro che il merciauolo, merciaio o merciaro, deriv. dal lat. "mercatus" e quiindi dal franc. "marchè" e dallo spagn. "mercado", etc.; poi "Negoziante", "Orefice", Panettiero, "Pasticciero", non abbisognano di chiarificazione alcuna, essendo mestieri esistenti e denominati sino ai giorni nostri; il "Pignataro", era ed è il pentolaio o figuleio, cioè colui che costruisce e realizza i "pegnète", cioè le pentole in terracotta; il "Sartore", figura molto presente a quel tempo a Monopoli, e del quale si contano ben 40 fuochi, deriv. dal lat. "sartor, sartoris" è il sarto, da cui anche "sartoru" o "sarture", da non confondersi comunque con il "Cosetore" che era ben altro, come, abbiamo visto prima. Numericamente presenti erano anche gli "Scarpari", ben 51, mestiere ben noto anche ai giorni nostri, sia pure in maniera decisamente minore; il "Sellaro", categ. questa specializzata nel realizzare selle per cavalcature, mentre rientrava inoltre nella suddetta anche il "Vardaro" o "Bardaro", ossia il bardaio, cioè un artigiano sellaio legato al cuoio, alla lavorazione del pellame, ma più propriamente addetto alla lavorazione delle selle senza arcioni, cioè le barde o basti per somari e asini e quindi anche finimenti per cavalli e attrezzi per le cavalcature. Deriva peraltro dall’arabo "bar_da’a", dal franc. "barda", dallo spagn. "albarda" (basto) e dal lat. "bardarius"; il "Sansaro" o sanzaio, è chi svolge attività di mediatore o intermediazione, difatti nel dialetto il termine "sanzère" individua chi percepisce un compenso per una mediazione; lo "Spatulatore", figura tipica legata alla lavorazione del lino, termine deriv. da spatula o corona per tale lavorazione, legata in un certo senso poi alla stessa e quella del "Tessitore", la cui presenza comunque resta molto risibile con appena 2 fuochi; chiudono questa categoria, il "Venditore" di vino", presente con 14 fuochi; il "Vive d’industria" (4), lo "Zuccatore" (17), che indicava chi estraeva il tufo con il piccone ed il "Mandese" o anche mannese, mestiere che non appare molto comune e che si presta a diverse interpretazioni. Poteva quindi essere quindi un carpentiere, costruttore di carri e carrettini coadiuvato dai lavoratori di mandese, ovvero gli apprendisti. Il toponimo in realtà si avvicina a quello di mantice o di manteca, nel primo caso sarebbe un costruttore di mantici (per zolfo, carrozze o altro), oppure un fabbricatore di burro addetto a mantecare, cioè alla preparazione di una formetta di pasta di scamorza con un piccolo globo di burro all’interno. Inoltre il mantese potrebbe essere anche vicino al settore allevamento, fra custode di vacche, bovaro e campese o essere ricompreso anche fra i fabbricatori, quando in altri catasti compare e viene definito il fabbricatore mandese, da distinguersi comunque dal fabbricatore maestro d’ascia, o dall’apprendista fabbricatore, scalpellino, apprendista scalpellino e maestro d’ascia ed infine il "Vaticaro o Vaticale", era chi trasportava acqua e ortaggi, merci e derrate a dorso di animale, quindi una categ. di microimprenditori che assicuravano il trasporto delle derrate dall’entroterra alla città, il cui capitale era costituito da un carro e qualche animale da tiro e che cercavano di lucrare piccoli profitti di intermediazione anche contrattando con i contadini per conto dei negozianti o più, semplicemente compravano e vendevano piccoli oggetti ai mercati, sia per conto terzi che proprio. Posto molto remunerativo ed elevato status sociale, poi, nel terziario, ricopriva certamente il "Regio Credenziero della Dogana di Monopoli", identificato nella fattispecie con Santo di Francesco Berlendis, di appena 19 anni, figlio di un ricco mercante di origini bergamasche, che incaricato di questo servizio, riscuoteva (con molta probabilità) i proventi della Dogana, identificandosi alla fin fine come cassiere della stessa; di prestigio poi sempre nell’ambito della categ. degli Ufficiali, impiegati e soldati, doveva essere quello di "Giurato", con ben 6 fuochi, professione che il latino inquadra come "jus patronatus laicorum", cioè chi assumeva incarichi di patronato o juspatronato tra la popolazione civile, rientrando poi nello specifico anche la figura del "Giurato del vescovo", come colui che assumeva tale tipo di incarico in ambito specificatamente ecclesiastico, e quindi del Vescovo di Monopoli; vi erano infine figure più specificatamente militari come "L’Alfiere della battaglia", tal Pietr’antonio Locassero, di a. 28, volendosi intendere quest’ultimo come chi portava prestigiosamente le insegne del battaglione o del corpo di appartenenza in combattimento, il "Sergente del Battaglione" tal Gio:antonio Peroscia di a. 55 di Monopoli, figura di comando, nel merito del quale si vuole precisare che fino al XVIII sec., detto grado era relativo a varie categ. di ufficiali, da subalterni a generali e solo successivamente passò poi ad indicare un sottufficiale; il "Cavalleggero della nova milizia" con il "Soldato della nova milizia" presenti con 11 fuochi, non dovevano, salvo qualche specifico caso, essere molto remunerativi, se si presentano spesso abbinati ad altre professioni atte a fornire perlomeno una sufficiente sussistenza, come "Bocciero", "Scarparo", "Maestro d’ascia", "Negoziante", "Barbiero" ed altre, abbastanza atipiche, come il "Contatore della Compagnia Cavalleggeri della nova milizia" ricoperta da un tal Francesco Paolo de Vito de Bari, di anni 48; ed infine il "Monitore" o "Monitionario della città" o anche successivamente "Monitionero", intendendosi come colui che approvvigionava la polvere da sparo per le difese della città, incarico e compito questo, quindi ricco certamente di gravose responsabilità, ricoperto da tal Sigismondo Petrone di a. 54; facevano poi alone a queste figure, quella del "Corriere", del "Procacciolo", deriv. dal termine "procaccia" come in italiano moderno, e lo "Scrivano", da cui deriverà poi la figura esiziale dello "scribente", conservatasi perlomeno sino al primo ventennio del ‘900 a causa degli elevati tassi di analfabetismo presenti nella popolazione italiana; al gradino più basso inoltre comparivano i serventi in tutte le salse, come "Fameglio dell’Aud.a", "Famiglio della Regia Udienza", "Servente della Dogana", e tra i quali comunque emergevano il "Creato o Creata" ed il "Creato di Gentiluomo", che oltre ad indicare una lunghissima militanza di servitù continua, spesso senza salario, individuava sin dal XIV sec. una persona protetta da un personaggio influente, ed infine il servo del gentiluomo, già presente anche questo nelle "Provisiones" del 1545, mentre anche in questo ambito, troviamo una figura un po’ a se stante, quella della "Esposita creata", una certa Marzia, una esposta o trovatella 22enne, che serviva nella famiglia di Pietro de Carrozza, che "Viveva del suo", cioè una famiglia che viveva di redditi e risorse proprie. Tra i professionisti accanto alle figure di "U.J.D." (9 fuochi), abbrev. latina di "Utriusque Iuris Doctor", cioè di laureato in discipline giuridiche e religiose", citato su tutti il nostro notissimo giureconsulto Prospero Rendella, che all’epoca aveva 75 anni e viveva da solo, in "buen retiro", nella sua "Casina del Serpente", nel luogo detto dei Pignatari (alle spalle del Calvario), a tutt’oggi esistente e visibile in fondo a via Cavour, anche se "eufemisticamente" non in buone condizioni, tutt’ora comunque in mani private e che andrebbe maggiormente tutelato mediante acquisizione al patrimonio comunale, onde ridare smalto e lustro a questa nobilissima figura monopolitana, e di "A.M.D." (6 fuochi), abbrev lat. di "Art Medicine Doctor", e quindi Dottore in Medicina, al quale ricordiamo erano riservate competenze di tipo non chirurgico, quali diagnosticare una ferita, prendersi cura di un ferito somministrandogli pillole o medicine solubili, ma disdegnando un eventuale approccio chirurgico (vedi salasso), poiché consideravano quest’ultima come un’arte e non una scienza, che quindi era quindi riservato al cosiddetto chirurgo o come abbiamo osservato in prefazione addirittura al barbiere; il "Causidico", dal lat. "causidicus", era colui che muoveva causa o contendeva nella formula giudiziaria, quindi un odierno avvocato che non aveva per questo, alcun tipo di problema economico o comunque remunerativo, ma, che comunque rimaneva ben lontano come valore totale di beni posseduti ed iscritti in catasto dai 7 "Notari", dai 4 "Giudici o Giodici a contratto", questi ultimi individuati solitamente in un notaio, un giudice o un arbitro che provvedeva per un compenso in denaro a dirimere o rogare una determinata controversia o questione in atto; in buona posizione anche lo "Speziale e quello più specifico di "Speziale di medicina", figura di speziale che realizzava medicinali e quindi farmacista. Particolare categoria poi quella delle "Vedove", causata tra l’altro anche dalla non alta aspettativa di vita e dalle vicende belliche che contraddistinguevano i tempi, e che benchè in alto numero (ammontavano ad oltre 400 unità), non avevano, a quanto pare, preoccupazioni per il futuro, disponendo complessivamente di un altissimo ammontare di beni, il cui valore in ducati era secondo solo a quelli dei "Nobili"; alle stesse vanno poi aggiunte le "Vergini in capillis", cioè fanciulle da matrimonio, la cui età oscillava tra i 14 ed i 30 anni circa, con punte anche molto più alte, ed infine le "Monache vezzoche", una casta di donne queste, che, già citata nelle "Provisiones" del 1543 vivevano secolarmente. Accomunati infine da condizioni che spesso coincidevano con uno status sociale elevato erano i "Viventi nobilmente", "Viventi civilmente", "Viventi del proprio" ed infine i "Nobili" che assommavano a circa 112 unità, ma che possedevano un valore totale di beni, espressi in immobili urbani, fondiari e valori capitali di circa 290 mila ducati, un’enormità se solo si pensa che questo dato corrispondeva ad oltre il 40% del valore totale dei beni riportati in catasto pari a 711.785 ducati. Un ultima categoria infine , menzionata nello stesso e trascritta a parte, è quella dei "Forestieri habitanti in Monopoli quali pretendono per haver: pagato, e pagare le gabelle come Cittadini non essere tenuti alla bonatenenza", così come li titola l’estensore del catasto, che, risultano presenti in numero di circa 70 fuochi, e tra i quali comunque non emergono mestieri, arti o professioni inedite o non rientranti tra quelle sin qui descritte, se non quella del "Trombetta di Montrone", tal Thoma Pagone di a.50, che identificava, con molta probabilità, una versione del banditore pubblico di manzoniana memoria ed infine il "Coyraro di Acquaviva", tal Jacono di mastro Loberto di a. 24, già osservato in prefazione e che comunque saranno oggetto e motivo di un successivo approfondimento. Perlomeno curiose infine, compaiono nel Catasto, figure avulse ed un po’ assestanti dalle categ, contributive sin qui citate, ma ugualmente e puntualmente riportate poiché evidentemente produttori di reddito e potenziali contribuenti sempre e comunque da spremere; ci riferiamo a quelle dei "Mendicanti", che evidentemente e "professionalmente", si spartivano gli spazi e i luoghi (chiese, conventi, piazze) dove poter mendicare o elemosinare in maniera più lucrosa, ne è riprova tra gli altri, un tale Cristaldo de Donato Napravato, di anni 50, riportato fedelmente dal Caracciolo, come colui che "Va mendicando per S.Maria del Soccorso" (nota chiesa rupestre cittadina risalente all’XI sec. e sita in via S.Domenico), ma che nel contempo possedeva "censi di capitale per ducati 32", non tralasciando infine a particolarità intrinseche che attendevano la sfera personale dei soggetti individuati, come quella del "Bottegario surdo" (tal Francesco Paolo di Liso di a.25) o del "Cecato" (tal Cesare Garganese, di a.44), che possedeva redditi e censi per 66 duc., o ancora del "Galeotto", dove viene preso in considerazione una certa "Giustina de Gimmo, di a. 24, moglie di tal Vito dello Vecchio, che sta in galera", che viveva con la madre 60enne e che sopravviveva, non si sa come, in una casa nella parrocchia del Vescovado di cui possedeva la metà e per un modestissimo censo di qualche ducato.

Antonio Comes