Riceviamo e pubblichiamo

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Caro Direttore,
atteso che gli anni passano e molti nostri concittadini non mi riconoscono più, visto che a qualcuno le lettere danno un po’ fastidio e constatato che qualche altro si offre (gentilmente, s’intende) di scegliere le foto d’apertura delle mie missive, vogliamo tagliare la testa al toro? Propongo, d’ora in poi, di “marchiare” i miei poveri scritti con una foto identica a quella che viaggia su Facebook. Per quanto riguarda il titolo (accompagnato o meno da un’immagine del mio o vostro repertorio), lo indicherò comunque per una semplice ragione di tracciabilità, decida Lei se confermarlo o cambiarlo a Suo piacimento. (continua)

Se in futuro la mia presenza su Vivimonopoli comincia a dare fastidio a più di qualcuno, me lo dica chiaramente dr. De Russis: sono pronto a ritirarmi e a riprendere in buona pace la mia (per la verità un po’ trascurata, proprio di questi tempi poi) coltivazione delle primizie ortofrutticole nel luogo più bello del mondo, la nostra campagna. Dove c’è tanta buona terra da zappare e ci sono ancora tantissime pietre da raccattare (esclusivamente a mano di prima mattina) che un tempo servivano anche per edificare le 99 chiese delle sue 99 contrade. A proposito di…

Pietre e cattedrali AUF

Grandi peccatori, grandi cattedrali, così “tuonava” il titolo di un libro di Cesare Marchi pubblicato circa vent’anni fa. Vi si leggeva che nell’epoca medievale le autorità ecclesiastiche, prima d’iniziare la costruzione di una chiesa, provvedevano a far attaccare apposite cassette sul recinto dell’area prescelta per le fondamenta sulle quali era ben evidenziata la scritta AUF (Ad Usum Fabricae), per invitare i passanti a depositare l’obolo quale contributo per portare a termine il sacro edificio.          Presumibilmente le chiese allora venivano erette con i proventi dei “grandi peccatori”, ma di fatto venivano realizzate con la fatica di una moltitudine di operai “scalpellini” addetti alla lavorazione della pietra locale, anche questa “auf” (termine dialettale equivalente a sbafo, gratis, senza alcun costo). Fino a qualche decennio addietro con la pietra locale venivano lastricavate le strade dei centri storici; si cordonavano i marciapiedi delle nuove strade urbane; archi, stipiti, soglie, mostre, fregi, gattoni e lastre di davanzali e balconi ornavano le case private ed i pubblici edifici; cappelle funerarie, cippi, argini e pareti a secco lungo le strade, persino le basole di alloggiamento dei chiusini dell’acquedotto, erano fatti in pietra locale lavorata a mano. Insomma tutti quei pezzi d’opera per durare in eterno (come le chiese) il cui materiale era abbondantemente disponibile nel territorio circostante.      Oggi, però, salvo qualche coraggiosa eccezione (come l’impiego della locale pietra di Apricena nella costruzione delle grandi e arditissime arcate della nuova basilica di Padre Pio in San Giovanni Rotondo), non solo la pietra locale è stata emarginata (è più facile macinarla con i possenti mangiapietre per mescolarla ai terreni agricoli), ma molte civiche amministrazioni addirittura preferiscono ritagliare con l’ “estraneo” travertino romano le targhe per la nuova toponomastica stradale. Sarà perché economicamente non conviene “formare” squadre di scalpellini come quelli che esistevano una volta (a Monopoli, fino agli anni Sessanta, c’era un laboratorio-cantiere in via Rattazzi, in locali attualmente adibiti a rosticceria), o forse perché si è dimenticato che sul nostro territorio esistono ancora oggi tutte quelle pietre “auf”, grazie alle quali possiamo ammirare le nostre splendidi cattedrali?  

Franco Muolo